DUE LIBRI

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[it]spesso e volentieri ricevo mail di persone che mi chiedono cose tipo come fare per diventare fotografo e per farlo come faccio io.

ogni volta scribacchio due banalità (fai belle fotografie!) e me la cavo così: anche perché fosse facile dare ricette via mail!

oggi però una ricetta per fare il mio mestiere la vorrei fornire: leggete libri. e già! io trovo che una cultura umanistica sia alla base di chiunque voglia fare un lavoro alla base del quale ci sia il raccontare storie, e le storie sono sempre più belle e più ricche se alimentate dalle storie altrui.

c’è anche una ragione più pratica, in verità: scrivere bene è importantissimo, e si riesce a scrivere bene solo ed unicamente se sono stati letti un sacco di libri. vi voglio dare un’assoluta certezza: quando ricevo mail che dicono ” signor benedusi io sò ke cè dentro di me sopratutto una grande passione x esprimere le mie emozioni e voglio fare il fotografo.come faccio?” io sono inevitabilmente portato a pensare che il signore faccia delle fotografie di merda. sicuro! e purtroppo vi devo dare la notizia che questa sensazione non l’ho solo io, ma l’avranno anche direttori di giornali, art director ed affini…

anche io faccio sonori strafalcioni? purtroppo sì. purtroppo non ho mai letto abbastanza, avrei potuto fare di più e meglio. e cuesta ne è la conseguenza…

tutto questo preambolo per parlarvi di due libri che mi sono piaciuti ultimamente. ne parlo su questo blog perché ambedue, più o meno direttamente, hanno a che fare con la fotografia:

Meditazione e Fotografia di Diego Mormorio. Contrasto editore

dico la verità: parlare o leggere di fotografia mi è, nella maggior parte dei casi, insopportabile. o si dicono banalità sconcertanti (che bella che è la fotografia in bianco e nero!) o cose che ho letto trent’anni fa scritte da susan sontag. e quindi è raro che trovi interessante oppure originale uno scritto sulla fotografia. ho trovato invece molto interessante questo libro. una delle banalità più banalità ad esempio è quando si dice che “a me il ritratto piace rubarlo, per cogliere la naturalezza del soggetto!” che cazzata! e mormorio spiega bene perché questa è una cazzata:

“Con l’espressione “ritratto istantaneo” si indica normalmente un “ritratto” in cui il soggetto fotografato è stato colto in un’espressione involontaria, vale a dire un’immagine in cui quest’ultimo non è in posa, ma ripreso in un attimo scelto da chi fotografa. Secondo la logica corrente, si crede che questo genere di “ritratto” sia più naturale, proprio perché chi è stato fotografato non ha assunto un atteggiamento particolare, una posa.

In realtà, in questo caso, la volontà del fotografo rischia di annullare quella del fotografato, che resta in balia di chi crede di compiere un atto creativo, mentre effettivamente spesso compie un esercizio narcisistico e sopraffattorio, pensandosi come il reale protagonista dell’immagine. Di fatto, nel ritratto e non solo, il protagonista non è mai chi fotografa, ma ciò che viene fotografato.

Nella nostra epoca di individualismo esasperato, ciò può risultare a molti inaccettabile: limitativo della creatività dell’autore. Ma, checchè ne possano pensare questi molti, al di sopra di ogni creatività sta il fatto che l’altro, come affermava nettamente Kant, non può mai essere ridotto ad un mezzo per giungere a qualche fine da parte di chicchessia.

L’immagine è parte integrante della persona. Nessuno può farla apparire diversamente da come questa vuole apparire. E l’unico vero modo che ha una persona che viene fotografata di apparire come ritiene giusto per sé è attraverso la posa.

Di fronte alla consapevolezza di essere al cospetto dell’obiettivo -posando!- il fotografato trattiene il respiro, si fa serio o sorride. In quell’attimo egli cerca di rendere visibile sul proprio volto quello che crede sia il proprio essere, la propria interiorità.

Il tempo della posa viene da lui percepito come un tempo dilatato, simbolico, dentro al quale cerca se stesso”

non so in verità se essere completamente d’accordo, ma il dare un punto di vista oltre la banalità mi sembra già molto interessante. tutto il libro è molto bello, consiglio caldamente.

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Glenn Gould di Katie Hafner. Einaudi

glenn gould è stato una grandissimo pianista canadese, per molti il più grande di tutti. questa sorta di biografia è molto interessante, con ampi stralci che possono riguardare anche chi si occupa di fotografia:

“Se gli domandavi come faceva a sapere che un FA era un FA, ti rispondeva: “Bè, è blu!”. Il DO era un verde giallastro. Il RE era color sabbia, il MI era un rosa giallastro, il LA bianco, il SOL arancione, e il SI verde scuro”

“…sebbene fosse un consumato, dotatissimo pianista, spesso chiariva ad amici, tecnici, intervistatori ed impiegati della Steinway che non gli importava molto del piano come strumento in sé per sé. Per Gould, fare musica era una questione più mentale che fisica, che trascendeva i limiti di qualsiasi strumento-nel suo caso il piano-, che in realtà si limitava a mediare lo scontro tra la musica suonata e la musica che esisteva nella mente. “Sa, il piano non è uno strumento per il quale io nutra un grande amore”, disse una volta ad un cronista, “l’ho suonato per tutta la vita ed è il mezzo migliore che ho per esprimere le mie idee”

“Gould non pestava mai, preferiva spendere il minimo di energia possibile mentre suonava. Come disse una volta ad Edquist (il suo accordatore) Glenn Gould sarebbe stato felice se il piano fosse stato in grado di suonare da solo al posto suo” [/it] [en]Often enough I receive emails by people asking me things like what to do to become a photographer and how to do it like I do.

Every time I scribble a few things banal things (take nice photographs!) and I have gotten away with it like that: as if its that easy to give out recipes via email!

Today though I would like to give you a recipe to do my job: read books. Right! I find that a human culture is based on whoever wants to do a job in which there is storytelling, and the stories are always better and richer if fuelled by other stories.

In truth, there is also a more practical reason: to write well is extremely important, and you get to write well only and exclusively if you have read a lot of books. I want to give you absolute certainty: when I receive emails that read “mister Benedusi I kno dat deep inside of me there is a gr8 passion that wants to xpress my emotions and I want 2 be a photographer. How do I do that?” I am inevitably led to think that the gentleman takes really shit pictures. Of course! And unfortunately I have to confess to you that I am not the only one to have that feeling, but also newspapers editors, art directors and related…

Do I also blunder? Unfortunately yes. Unfortunately I have not read enough, I could have done more and better. And dis is the consequence…

All this preamble to talk about two books that I liked lately. I talk about it on this blog because both of them, more or less directly, have to do with photography:

Meditation and Photography by Diego Mormorio. Edition Contrasto

I am going to tell the truth: to talk or read about photography is, in most of the cases, unbearable. They are either staggering banalities (black and white photography is so beautiful!) or things I read thirty years ago written by Susan Sontag. Therefore it is rare that I find original a write up about photography. Instead I have found this book very interesting. One of the most banal platitude for example is when you say that “I like to steal the portrait, to capture the naturalness of the subject!” what bullshit! And murmur explains well why this is bullshit:

“With the term “instant portrait” usually indicates a “portrait” in which the subject has been photographed accidentally, ie an image in which the latter is not posing, it is believed that this kind of “portrait” is more natural, because those who where photographed did not assume a particular attitude, a pose.

In fact, in this case, the will of the photographer may cancel that of the photograph, which remains at the mercy of those who believe make a creative act, while indeed often it accomplishes an overwhelming and narcissistic action, thinking of themselves as the real protagonist of the picture. In fact, in portraits, the protagonist is never who photographs, but what is being photographed.

In our age of rampant individualism, this may be unacceptable to many: limiting the creativity of the author. But, whatever they might think, above all creativity is the fact that the other, as Kant clearly stated, can never be reduced to a mean of arriving at some end by someone else’s.

The image is an integral part of a person. Nobody can make it look different from what it tries to appear. And the only real way that a person who is being photographed will feel to appear as themselves will be through the pose.

Faced with the knowledge of being in front of the camera -posing!- the photographed holds his breath, he turns serious or smiles. In that moment he tries to make visible with his face what he believes is his own being, his inner life.

The posing time is perceived by him as an extended time, symbolic, within which he searches for himself”

I don’t know if I can truthfully agree, but giving a viewpoint beyond the banality already seems very interesting. The whole book is very nice, I highly recommend it.

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Glenn Gould by Katie Hafner. Einaudi

Glenn Gould was a great canadian pianist, for many the best of them all. This sort of biography is very interesting, with long passages which may include anyone involved in photography:

“If you were asking him how he knew that a FA was a FA, he’d reply: ”Well, it’s blue!” The DO was a yellowish green. The RE was the colour of sand, the MI was a rose yellow, the LA white, the SOL orange, and the SI is dark green”

“…although he was a seasoned, well gifted pianist, often made it clear to friends, technicians, interviewers and clerks of Steinway that he did care much for the piano as a tool in itself. For Gould, making music was more a mental matter than physical, it transcended the limits of any instrument – in his case the piano -, and was actually limited to mediate the conflict between the music played and the music that existed in the mind. “You know, the piano is not an instrument for which I nourished a great love”, he once told a reporter, “I played it all my life and it is the best medium I have to express my ideas”

“Gould never beat, he preferred to spend the minimum possible energy while playing. As he once said to Edquist (his tuner) Glenn Gould would have been happy if the piano was able to play by itself in his place”[/en]

8 risposte

  1. Daniele Colombi

    Ciao, ti seguo da un po’ ma è il primo commento che scrivo.
    I due libri sembrano molto interessanti, accetto il consiglio.
    Complimenti per tutto.

  2. Francesca Stella

    Fare un buon ritratto significa intanto avere molto interesse e molta empatia per l’altro; e poi bisogna che l’altro dialoghi con te. Mentre la fotografia che io amo, secondo un clima bressoniano, implica quasi una certa invisibilità di fronte agli accadimenti del mondo, il ritratto no: il ritratto implica consapevolezza, implica “io ti sto facendo il ritratto e tu sai che io te lo sto facendo.” (F. Scianna)

    Al di là della condivisibile distinzione fra istantanea e ritratto, nemmeno io sono del tutto d’accordo con quello che hai riportato, in particolare in questo passaggio: “Di fatto, nel ritratto e non solo, il protagonista non è mai chi fotografa, ma ciò che viene fotografato.” Inutile stare qui a versare fiumi d’inchiostro sul lungo dibattito che ha riguardato nel tempo questo tema, ma in generale non si può negare che in un ritratto il soggetto sia solo una parte della rappresentazione. La personalità del fotografo, il suo immaginario, il suo mondo interiore, il suo approccio: tutto emerge in una foto, che sia di ritratto o meno. Nel ritratto c’è ovviamente una forte componente esogena rispetto al fotografo, perché si trova ad avere davanti un’altra persona che può avere altrettanta forza (problema: come lo argino? come lo porto dove voglio io?) oppure trovarsi davanti a un muro impenetrabile, di timidezza o persino ostilità. Il fotografo deve in ogni caso saper gestire la situazione e lo fa solo e unicamente affermando la propria personalità nello scatto: entrandoci insieme al soggetto. Non a caso, la riconoscibilità di un autore fa capo proprio a questo.
    Sai che recentemente ho lavorato su un progetto in cui ho volutamente cambiato l’approccio del fotografo nello scatto (lo linko solo per far capire a chi legge di cosa parlo: http://www.francescastella.com/within-dentro), esplorando la comunicazione non verbale. Si potrebbero fare molte considerazioni, ma m’indirizzerei su quella di cui stiamo parlando: quanto di me c’è in queste foto? E quanto del soggetto? Al di là del fatto, palese, che ogni persona ritratta mostra il suo “dentro”, che è sempre differente, notavo insieme a uno dei miei ultimi soggetti che questi ritratti per certi versi si somigliano: oltre all’atmosfera, sempre abbastanza carica e un po’ cupa, con il soggetto che spesso emerge da una semioscurità, io ricerco spesso un certo tipo di sguardo. Una sorta di inquietudine, d’incertezza, di paura ad affidarsi. Certo, ci sono delle eccezioni sulle quali non apro altre parentesi, ma di fatto in quelle foto ci sono tanto io – o meglio, il mio io di adesso – quanto (se non di più di) quello dei miei soggetti.

    Sul secondo libro, mi trovi a casa… L’ho amato di brutto 😉

  3. a8enga

    mi permetto anch’io di intervenire per la prima volta su questo blog perché trovo questo post molto interessante ed opportuno
    lo sport (prendiamo il tennis) mi ha insegnato che per avere risultati importanti il talento da solo non basta; servono la perfezione del gesto, l’allenamento, la perseveranza fisica e mentale, la concentrazione – insomma serve un LAVORO enorme affinché il “talento” possa esprimersi al meglio e rappresentare quel “valore aggiunto” che ti consenta di raggiungere un obiettivo…
    allo stesso modo, credo che nella fotografia sia importante costruire il proprio “stile” (il proprio modo di vedere le cose) ovvero il proprio percorso fotografico su una solida e mai paga base culturale (curiosità intellettuale), soprattutto in questo particolarissimo momento storico…
    ormai credo che siamo tutti d’accordo nel riconoscere che le belle (sic!) immagini sono in grado di farle tutti e che il mercato sta reagendo in modo piuttosto disordinato (ma chiaro) a questa “novità”; non voglio entrare in una discussione che va al di là delle mie competenze, ma di fronte all’aumentare esponenziale di immagini in circolazione così come di fotografi improvvisati/occasionali/part-time ecc (che incidono – e molto – sulla professione e sul mercato di riferimento), personalmente ritengo che conoscere la storia della fotografia e alimentare il proprio quotidiano con stimoli culturali come quelli suggeriti da Benedusi sia decisivo non solo per i Fotografi (professionisti/artisti) ma anche – e forse soprattutto – per chi guarda (e spesso si permette di criticare) i loro lavori
    quindi, condivido l’invito di Benedusi, leggiamo libri!!

  4. corrado a.

    L’immagine è parte integrante della persona. Nessuno può farla apparire diversamente da come questa vuole apparire. E l’unico vero modo che ha una persona che viene fotografata di apparire come ritiene giusto per sé è attraverso la posa.

    è per questo che tutte le fotocamere hanno l’autoscatto?

    Vabbeh… grazie per le recensioni.

    ciao

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