VIVIAN MAIER

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Nei miei incontri e workshop racconto spesso che in un servizio fotografico deve succedere qualcosa.
E che la fotografia deve essere la prova, la testimonianza, la evidence, che quella cosa è successa.

Ovviamente non parlo di un accadimento fisico e della capacità della fotografia di riuscire a documentarlo. No.
Parlo del fatto che in un servizio fotografico deve accadere qualcosa in chi sta fotografando e/o in chi viene fotografato.

Il complicato, e soprattutto ciò che deve essere cercato, è che quel qualcosa accada.
Se qualcosa accade la fotografia ne sarà la evidence (preferisco questa parola da film giallo americano).

Rimanendo sulla metafora da film giallo americano, una sigaretta in un portacenere in sè non ha alcuna importanza, ma se è la prova risolutiva della presenza sul luogo del delitto di un sospettato è fondamentale.

In un servizio fotografico temo che la maggior parte delle persone che fanno click click si occupino di mettere per bene la sigaretta nel portacenere, senza anteporre ad essa alcun fatto che possa giustificarne la presenza.

Fuor di metafora quando si scatta bisognerebbe, secondo me, preoccuparsi di far accadere qualcosa: se ciò succede la fotografia sarà lí a testimoniare che quella cosa è successa.

È anche vero che non tutti sono Simenon e risolvono il delitto, cosí come non tutti sanno decifrare una fotografia per capire cosa racconta. Ma chi se ne frega! L’importante è che (l’ho già detto?!?) succeda qualcosa!

A tutte queste cose pensavo guardando il bellissimo documentario sulla fotografa Vivian Maier, che ha saputo, tramite la sua Fotografia, disseminare una quantità meravigliosa di indizi per raccontare sè stessa e i suoi misteri.
Per fortuna in questo caso c’è stato uno ancora più bravo di Simenon per capire tutto.

Bellissimo.
Guardatelo!

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7 risposte

  1. Vilma

    Benedusi, mettiamo che nelle foto della Maier qualcosa accada, che le foto ne siano la prova provata (espressione poco da film giallo, più da commedia napoletana), mettiamo che quelle foto servano a risolvere il ‘delitto’ e mettiamoci infine che la fotografia è un linguaggio (com’è ormai noto anche alle casalinghe di Voghera). Mi chiedo: che senso ha che una fotografa scatti più di 100.000 foto e le tenga segrete? non la pensava come te? aveva un qualche disturbo della personalità? non si rendeva conto di quello che faceva?

  2. Alessandro

    O, molto più semplicemente, scattava per se.

  3. Vilma

    @ Alessandro
    Credo che chi dice che dipinge per sé, che scrive per sé o fotografa per sé sia un bugiardo, anche se in buona fede.
    Perché se ogni cosa che facciamo, anche gli scarabocchi mentre telefoniamo, è comunque un linguaggio e come tale parla di noi, io credo che nessuno faccia consapevolmente un discorso chiedendo a chi ascolta di tapparsi le orecchie.
    Forse la Maier ha aspettato tutta la vita che qualcuno la ascoltasse o forse non ha mai avuto il coraggio di farsi ascoltare, volevo sottolineare l’anomalia della situazione.

  4. damiano

    Credo che lo scatto, inteso come atto-klick, a volte possa essere appagante come tale; tanto che tutto quanto ne segue ne è una conseguenza forse non più desiderata.

    Cosa che i Photographers, quelli veri e quelli no, spesso non riescono a concepire.

  5. Luca Nicoletti

    Ho visitato la mostra di Nuoro. Non conoscevo Vivian Mayer, e guardare il documentario che descriveva la sua vita, era come assistere alla lavorazione di un diamante grezzo fino ad avere tra le mani una pietra preziosa. Il documentario mi ha commosso, e solo grazie all’intuito di un ragazzo molto sveglio e intraprendente (John Maloof) oggi conosciamo una grande fotografa, rimasta nascosta, lei e le sue foto, per una intera esistenza tra le pieghe del destino. (Luca Nicoletti – Rimini)

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